di Lilli Susca
Della parte di universo che conosciamo, la Terra è l’unico pianeta abitato, l’unico luogo a noi noto in cui esiste la vita. Perché si sia generata la vita proprio qui è un mistero, ma certamente da un punto di vista prettamente laico si può dire che sia stato il risultato di coincidenze, di variabili che si sono incastrate in funzioni complicatissime tendenti all’infinito. Il tutto per creare un equilibrio fisico-chimico-biologico unico che rende l’aria respirabile, il suolo coltivabile, l’acqua bevibile. Ma l’uomo non capisce o fa finta di non capire che questo equilibrio non è indistruttibile, che come siamo stati generati dall’universo così potremmo esserne inghiottiti, un giorno.
L’accordo di Parigi 2015, siglato da 195 Paesi, sembrava potesse rappresentare un passo importante verso il cambiamento. Obiettivo a lungo termine: la riduzione delle emissioni al fine di contenere l’aumento della temperatura media globale, mantenendola al di sotto dei 2°C. Ma pare che nessuno degli Stati firmatari stia facendo qualcosa di concreto per onorare le promesse. Inoltre, le previsioni fatte pochi anni fa non sono già più veritiere: i ghiacciai si sciolgono a velocità superiori rispetto al previsto e ciò che poteva suonare come una disgraziata eventualità sembra ormai una minaccia plausibile. Se non saremo capaci di invertire il processo di riscaldamento globale, si prevede che intorno al 2050 “a causa dei cambiamenti climatici, gli ecosistemi terrestri collasseranno e intere aree risulteranno inabitabili” per via di inondazioni e desertificazioni. Ciò porterebbe a circa 1 miliardo di profughi climatici e 2 miliardi di persone sarebbero costrette a sopravvivere in condizioni di siccità estrema. È quanto emerge da uno studio pubblicato dal Breakthrough National Center for Climate Restoration di Melbourne. Ciò significa dire addio al mondo che conosciamo, dal più piccolo particolare a scenari geopolitici consolidati. Rinunciare a colture centenarie che hanno sostentato popolazioni intere, generazione dopo generazione. Essere costretti a lasciare il proprio Paese. Indossare tutti, anche noi occidentali, i panni dei migranti per necessità, in cerca di un luogo né troppo a nord, né troppo a sud. E significa anche dover affrontare tutte le prevedibili tensioni internazionali che ne deriverebbero. Non si parla di lontani discendenti, ma dei nostri figli, con le proprie famiglie.
È evidente, quindi, l’attualità del problema, nonché la necessità di intervenire sui macrosistemi oltre che nel nostro microcosmo. Urge educare all’ambiente una tale quantità di persone che insieme siano in grado non solo di incidere positivamente, nel loro piccolo, sul processo di recupero della salute del pianeta, ma anche di muovere o smuovere la politica e l’economia, come una massa dirompente e inarrestabile. Il summit dello scorso 23 settembre a New York è stato accolto, se così si può dire, da folle di manifestanti in tutto il mondo, dall’Australia all’Afghanistan, da Berlino a New York. E questa spinta dirompente, perlomeno sul fronte mediatico, è nata da una ragazzina svedese che poco più di un anno fa ha iniziato la sua battaglia a favore del pianeta terra. Greta è un esempio straordinario di inversione della canonica relazione docente-discente, laddove il ruolo di docente non è rivestito da un adulto bensì da un’adolescente. Il mondo degli adulti non può che imparare da lei, non può che scegliere di diventare seguace di questa ragazzina. Fanno sorridere i tentativi di screditarla o di sminuirla con teorie dietrologiche e complottiste. Infatti probabilmente la Thunberg è ormai considerata da molti un’eroina dei nostri giorni e il compito degli adulti deve essere quello di convogliare le proprie forze e quelle di tutti coloro che li ci circondano nella sua stessa direzione. Nel suo accorato discorso alle Nazioni Unite, Greta accusa i potenti, i “grandi” in generale, di non essere capaci di ascoltare, ma soprattutto di agire con provvedimenti seri. Infatti, il summit, a cui Trump ha partecipato distrattamente e a sorpresa, si è concluso con un accordo non vincolante e tutt’altro che rispondente all’appello che il mondo intero ha rivolto all’ONU nella settimana del clima. Insomma, è come quando il proprio figlio adolescente, seduto sul sedile posteriore, prega il genitore di rallentare, ma lui lo ignora, quasi prendendolo in giro, oppure finge di accontentarlo alzando solo un po’ e per pochi minuti il piede dall’acceleratore, per poi riprendere a correre, per il puro piacere di farlo. E quando il ragazzo gli urla di andare più piano, lui gli risponde urlando ancora più forte, perché non accetta questa sua insolenza, perché vuol dire che non si fida di suo padre. Al figlio non resta che pregare di arrivare sani e salvi alla meta e di raggiungere il prima possibile i diciotto anni, per poter finalmente mettere le mani su quel volante.
Greta e i ragazzi come lei urlano la loro preghiera di fermarsi, di guardarsi intorno, prima che sia troppo tardi. Come diceva Le Corbusier, “Il volo ci ha regalato gli occhi degli uccelli, un punto di vista prezioso per osservare tanto mondo tutto insieme e lo scempio che ne stiamo facendo.” Allora alziamoci in volo, ogni tanto!
Preziosa riflessione! Assolutamente d’effetto il paragone tra la corsa alla distruzione del nostro pianeta e la corsa folle e imprudente in auto.