di Alessandra Pignalberi
Due immagini si sovrappongono.
Da una parte il Bianconiglio con il panciotto e il suo inseparabile orologio da taschino che corre tra le strade del Paese delle Meraviglie urlando: “Poffare poffarissimo! Ho fretta, ho fretta è tardi, è tardi, non aspettano che me in ritardo sono ormai non mi posso trattener[1]!“.
Dall’altra una volpe e un piccolo principe. La volpe che dice: “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!”
“Che cosa bisogna fare?” Domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe.
[…]
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe.
“Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore. Ci vogliono i riti”.
[…]
È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.
“È il tempo che ho perduto per la mia rosa…”, sussurrò piccolo principe per ricordarselo[2].
Due scene così diverse: nella prima si manifesta l’incapacità di stare, di fermarsi, la smania di arrivare, di andare; nella seconda la voglia di dedicare e dedicarsi del tempo, di rimanere in un’attesa che crea un legame, una relazione profonda e significativa. Due differenti rappresentazioni legate da un comun denominatore: il tempo.
Come può essere percepito? Siamo nella frenesia degli accadimenti o nell’attesa che questi avvengano?
In un momento storico come quello che ci troviamo a vivere, dove ognuno è stato chiamato alla necessità di fermarsi, forse è d’obbligo consentirci una riflessione su questo tema. Come siamo portati a vivere quello che succede? Quanto riusciamo a sintonizzarci sul processo che porta all’evento piuttosto che all’evento in sé?
Nasciamo da un’attesa che dura 9 mesi, senza di essa non esisteremmo; in questo tempo ogni cellula prende forma e innesca un meccanismo straordinario chiamato vita; eppure la nascita viene sancita nel momento in cui quell’attesa finisce…Un paradosso? O forse una tendenza a “negare” che è dall’attesa che la vita prende forma, che l’esperienza diventa insegnamento, che la relazione diventa legame.
Nella stanza di psicoterapia spesso ci si trova a riflettere insieme ai pazienti dell’importanza di imparare a stare nel qui e ora, senza anticipare ciò che avverrà, ma focalizzandosi sull’importanza di tornare sugli eventi passati, di attendere che quanto accaduto o accadrà prenda forma e trovi spazio dentro se stesso, per poi trasformarsi in quella risorsa che può nascere solo dalla capacità di aspettare.
Nello psicodramma una delle fasi primarie che avvia il processo di elaborazione è definito “warming up” (fase di riscaldamento) e consiste proprio nel riportare il paziente, attraverso metodi attivi e psicodinamici, nell’evento, nella fase di vita che si vuole ripercorrere, un viaggio nel tempo, una sintonizzazione con esso, uno stare all’interno di quel momento. I 55’ minuti di una seduta di psicoterapia sono senza tempo, è dalla relazione tra terapeuta e paziente che se ne definisce la scansione e in quello spazio le lancette dell’orologio, pur andando avanti, possono essere lasciate nel presente o spostate nel passato o futuro. È lo stare degli “attori” coinvolti che ne determina il processo cronologico. Quando l’orologio della stanza scandisce la fine dell’incontro, il tempo terapeutico continua a scorrere all’interno della “coppia” in quell’attesa che li separa dal prossimo incontro.
[1] Cit. dal film di animazione Walt Disney “Alice nel paese delle meraviglie”.
[2] Cit. A. De Saint-Exupery, Il Piccolo Principe, Tascabili Bompiani Editori, 2009, Milano, pp. 91-98