di Costanza Ceccarelli
C’è un termine ebraico, ‘ohlàm, cheesprime l’idea di tempo indefinito o incerto. Il lessicografico Wilhelm Gesenius lo definisce «tempo nascosto, cioè oscuro e lungo, di cui è incerto il principio e la fine». A volte, tuttavia, il termine si riferisce a qualcosa di eterno, un infinito indefinito. Un altro termine ebraico, ‘adh, indica un tempo illimitato, qualcosa che sta sempre come sta. Spesso i due termini ricorrono assieme, la cui resa potrebbe essere “in eterno e per sempre”.
Tempo ed eterno compaiono a lungo nelle riflessioni filosofiche. Nelle Confessiones di Agostino ha inizio quella che si potrebbe definire l’analisi esistenziale del tempo, dove il tempo assoluto di Dio, l’eternità, fa irruzione nell’esperienza umana. «Se il futuro e il passato sono, desidero sapere dove sono. Se ancora non riesco, so tuttavia che, ovunque siano, là non sono né futuro né passato, ma presente. Futuro anche là, il futuro là non esisterebbe ancora; passato anche là, il passato là non esisterebbe più. Quindi ovunque sono, comunque sono, non sono se non presenti», (Agostino, Confessiones, XI: 18-23). E ancora, «Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa», (Agostino, Confessiones, XI: 20-26). Un passato che non è più, un futuro che non è ancora. Tutto in un presente non collocabile tanto in un luogo spazio-temporale, quanto nell’esercizio che riannoda i segmenti del decorso temporale sul filo teso della sua consapevolezza, dilatandone i confini.
Dimensione rappresentativa fondamentale della nostra forma di vita, l’elemento temporale si affianca a quello fisico-spaziale. Entrambi svolgono un ruolo importante nel nostro condurci nella vita e, nel loro essere messi in stallo dagli eventi contemporanei, aprono necessariamente ad una rivisitazione, ad un ripensamento. Tempo e spazio abitati dall’abitudine si prestano a diventare campi d’esercizio di modalità altre, forme di vita inedite, indefinite e infinite. Abitare significa anche assumere abitudini, stazionare in un abito, assumere forme visibili. Così come si dismette un abito vecchio o della misura sbagliata, è possibile dismettere tempi e spazi dell’abitudine? È possibile, cioè, fare della messa in stallo del tempo e dello spazio conosciuti l’occasione per cambiare residenza, per andare ad abitare il tempo infinito poiché indefinito? È possibile “fare di necessità virtù”, cioè agire quella libertà che si assapora quando l’unica scelta che le circostanze offrono diventa assunta interiormente come il compito irrinunciabile del proprio momento storico?
Fare proprio il senso della necessità, come insegna Simone Weil, rende pienamente liberi, perché la libertà implica misura e limite. In questo senso, la libertà non disconosce la necessità, ma se ne emancipa assumendola nel proprio campo d’esercizio. Coltivare il campo d’esercizio dell’abitare il tempo può, allora, diventare esercizio di libertà. E, come ogni esercizio, necessita del suo metodo.
Si narra che il monaco Arsenio (seconda metà del III sec. d. C.), nella sua ricerca di una vita sensata, pregasse Dio con insistenza: «Mostrami, Signore, il cammino della salvezza». Allora venne a lui una voce che diceva: «Arsenio, fuge, tace, quiesce», (Apophthegmata Patrum Aegyptiorum, Arsenio, 1.2).La riflessione, la meditazione, l’elaborazione accurata del pensiero esigono necessariamente spazi e tempi indisturbati, non distratti. Sono attività che esigono una certa solitudine (fuge), come recupero della “monasticità” del cuore. Solitudine che conduce al silenzio: ricercare il silenzio esteriore per giungere a quello interiore (tace). Non è facile vivere il silenzio dentro il rumore incessante del mondo. E senza silenzio è impossibile una vita spirituale. E senza vita interiore l’individuo è in balia di ogni genere di impressioni, è indifeso di fronte a ciò che può aggredirlo dal di fuori o dal di dentro. La solitudine e il silenzio sono in vista del passaggio successivo e determinante: la vera e propria stasi equanime (quiesce).