di Lilli Susca
“Io non so parlare d’amore ma so che quando tu mi stringi le mani forte…”
Prendo in prestito queste parole di Bennato, spero non me ne voglia, per scusarmi con il lettore, prima ancora che inizi a leggere questo articolo. Io non so parlare di scuola, ma so che quando ho di fronte una classe che mi sorride… Non so parlare di scuola, di certo non come Maurizio Muraglia, il cui articolo “Fiducia a scuola e nella scuola” ho trovato davvero illuminante. Per una trattazione scientifica, professionale ed equilibrata, vi basterà googlare il titolo e voilà. Qui, in quello che segue, di scientifico troverete ben poco.
Una classe che sorride, persino attraverso uno schermo, ciascun alunno affacciato dalla sua cella di alveari telematici dai nomi rassicuranti come meet, teams, hangouts. Nomi che evocano incontri, lavori di gruppo, giri in città, tutto ciò che in questi mesi è stato loro negato. Ironia che di sicuro non sarà sfuggita a molti studenti. Ma questa è un’altra storia. Parliamo di fiducia nella scuola a prescindere dalle congiunture pandemiche, o comunque non utilizzando l’isolamento forzato come unico scenario.
Ho perso di nuovo il filo… Una classe che sorride, dicevo, è un segnale importante. Vuol dire che la comunicazione sta funzionando. Perché la comunicazione funziona se esiste un feedback. Non tutti i canali di comunicazione permettono un feedback immediato. Quello che sottende il processo di insegnamento-apprendimento sì. L’insegnante può chiedere un feedback, ponendo domande, chiedendo agli studenti di svolgere un esercizio, di fare una breve traduzione e in questo modo capire se ciò che ha appena spiegato è stato compreso. Ma quando una classe sorride proprio mentre l’insegnante spiega, vuol dire che quei ragazzi sentono l’esigenza di anticipare il feedback, di rispondere, ancor prima di essere invitati a farlo. Certo, so cosa state pensando, un sorriso non è necessariamente sinonimo di approvazione. Magari quando sorridono stanno pensando “ma quanto è scema questa?!” oppure “parla, parla, che io intanto mi rivedo il film di ieri sera con tizio (o tizia)”. Ma a volte, in uno di quei momenti di grazia che l’insegnante vorrebbe incorniciare e mettere in bella mostra sul camino, succede che la classe sorrida perché tu stai dicendo o facendo qualcosa che corrisponde esattamente alle loro aspettative. Stai meritando la loro fiducia. Loro si sono fidati di te quando ti hanno visto entrare in classe la prima volta e adesso stanno pensando, mentre ti sorridono, che hanno fatto bene a credere in te. Che tu sei un bravo maestro o una brava maestra, che da te possono imparare la vita, o almeno una piccola parte di essa. Perché si è maestri – qualunque sia l’ordine di scuola in cui si insegni – quando con i propri alunni si costruisce un percorso insieme, quando gli obiettivi cognitivi si integrano con quelli educativi, quando si è capaci di ricambiare la fiducia, anche a scatola chiusa, anche il primo giorno di scuola. Quando, insomma, noi insegnanti, noncuranti del clima diffamatorio in cui lavoriamo, dei continui e inutili interventi di chirurgia estetica a cui la politica sottopone la scuola, entriamo in classe sorridendo, fiduciosi in un giorno migliore.
L’empatia è la premessa di qualsiasi scommessa educativa. Ed essa passa obbligatoriamente attraverso un sorriso. Anche a costo, come dici tu, di sembrare “scemi”. I ragazzi, per fortuna, non badano a queste cose.