di Costanza Ceccarelli
Abbiamo tutti dentro un mondo di cose;
ciascuno un suo mondo di cose!
E come possiamo intenderci, signore,
se nelle parole ch’io dico metto il senso e
il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro?
Crediamo di intenderci; non c’intendiamo mai!
(L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore)
Uscendo deliberatamente dal gergo tecnologico, in favore di un recupero del significato etimologico, il termine “interconnessione” o “interconnettersi” ci rimanda al movimento attraverso cui si mettono in connessione reciproca due o più elementi. Due figure attraggono lo sguardo: la reciprocità e il movimento che ad essa conduce. Declinata nella sfera del vivente, reciprocità ci pare essere espressione primaria della relazione: dal latino rectus–procus-cum, ovvero “ciò che va e che torna vicendevolmente”. Comportamenti scambievoli sono chiaramente osservabili nei rituali di molte specie animali; nella specie Homo sapiens sapiens possiamo osservare lo stabilirsi di un sistema molto complesso di bilateralità che partendo dai gesti e dagli atteggiamenti corporei, con l’attivazione degli schemi emozionali senso-motori dei modelli operativi interni, arriva alla costruzione di significati personali. Da un incontro potrà nascere un rapporto se verranno costruiti significati “conciliabili”, che possono “stare assieme”, generati nella “reciprocità possibile” dei sistemi significanti. L’osservazione della reciprocità fornisce una concreta possibilità di contenere il rischio della assoluta soggettività legata all’io o al tu, superandola attraverso il noi.
Questo tema, divenuto cogente e irrimandabile in un modello di società quale l’attuale, dove la percezione individuale di sé e degli altri ha preso il sopravvento, con un movimento di spostamento dall’oggettività del reale a un’illimitata soggettività che si fa legge di se stessa, sta al cuore di tanta riflessione delle scuole del primo buddhismo. Riflessione che si sostanzia e si radica in una rigorosa disamina della cognizione e dei suoi funzionamenti che oggi potremmo chiamare, con termine moderno, filosofia della mente. In questo contesto, si radica l’apertura al mondo che contraddistingue, ad esempio, le scuole buddhiste cosiddette mahāyāna: “ci si apre al mondo perché ci si riconosce mondo, non perché si pensa di essere migliori del mondo o al mondo i migliori”, sottolinea Jiso Forzani, monaco zen, in un suo articolo comparso sulla rivista buddhista Dharma. Apertura al mondo tanto più autentica, quanto più essa si dà come modo d’essere dell’individuo, elaborazione interiore di un cambiamento della percezione di sé che innesca il movimento del mutuo scambio.
Condotta in questi termini, la riflessione sull’interconnessione ci riporta alla domanda del come muoverci nel mondo, in virtù di quale esercizio poter smuovere la concezione di sé in vista dello scioglimento dell’io nel noi. Potremmo, allora, (ri)pensare la figura del movimento attraverso cui si mettono in connessione reciproca due o più elementi, formulandola come un esercizio personale a non vedere e a non fare le cose nel vecchio modo o, usando le suggestioni del primo buddhismo, rivedere la concezione di sé e trasformare il punto di vista. Frequentare le parole di Ajhan Chah (monaco thailandese, uno dei massimi esponenti della tradizione buddhista theravāda della foresta), nel suo invito a superare “la fissazione e l’attaccamento” e la credenza “che esistiamo come entità indipendenti e che le cose ci appartengono”. Esercitarsi a muoversi nel mondo verso la configurazione di “reciprocità” come un comportamento “che va e che viene”, che sussiste in modo analogo e vicendevole tra due o più soggetti e soprattutto che è espressione della connessione (della relazione) e quindi dell’interdipendenza.
Chah Ajhan, Tutto insegna, 2011, ed. Monastero Santacittarama
Forzani Jiso, “Buddhismi in Italia”, in Dharma, n. 36, 2012