Box Ritratti Rigeneranti
La nuova esperienza artistica che rigenera la fiducia in se stessi e nella natura
di Martina Rubera
Germinazione “in botanica è il ritorno alla vita attiva, in presenza di condizioni ambientali favorevoli. È il complesso dei processi che consente all’embrione di un seme di nascere e svilupparsi dando origine ad una nuova pianta.” Come nello stato di quiescenza dei semi così a volte il nostro sentire rimane inattivo, in attesa delle condizioni ottimali per poter riemergere e rigenerarsi, attivarsi. Concettualmente esperienze di vita o modi di pensare negativi portano a ledere o perdere contatto con se stessi; ecco che il progetto della Box Ritratti Rigeneranti nasce come intuizione durante il periodo di lockdown ed è il frutto di un lungo lavoro di Martina Rubera, fotografa e artista, in stretta collaborazione con Anna Bettoni, consulente analogista ed esperta di ipnosi dinamica. Questa cooperazione ha permesso all’artista di acquisire conoscenze importanti sull’inconscio per poter elaborare al meglio il ritratto simbolico, della persona che vivrà questo percorso, così da trasformare l’intento della persona e la sua immagine in qualcosa di fertile, da cui far nascere vita, Rigenerarsi.
La “Box” è realizzata per coltivare la propria immagine interiore con un vero e proprio atto di fiducia piena in se stessi e verso la natura tutta, attraverso la coltivazione di una propria fotografia stampata su carta piantabile, una carta artigianale che contiene semi di vari tipi di fiori di campo. Questo percorso sensoriale ed emotivo, attraverso vari step accuratamente ricercati, permette di vivere un’esperienza unica e profonda. Dona la possibilità di sentirsi e riconcedersi alla propria natura seguendo e coltivando un proprio intento rigenerativo. Un atto che diviene fortemente emozionante nel momento in cui la propria immagine viene coperta dalla terra, lontano dalla percezione visiva, diviene un gesto di affidamento a se stessi, alla propria sensibilità e all’energia della natura. Ancora più emozionante è veder spuntare i primi germogli da quella immagine sotterrata, essere testimoni di una propria rigenerazione, dove alla base viene ricordato il principio “Nulla si crea, Nulla si distrugge, ma Tutto si Trasforma”.
Nella natura vegetale vige la perfetta armonia che si prodiga, vive e risplende in quell’essenziale che l’ambiente circostante le dona. Un invito a guardarsi, stupirsi ancora della nostra vera e bellissima natura interiore.
L’artista sarà presente dal 24 giugno al 28 giugno 2021 all’evento La Sublime Bellezza Festival presso Villa Matteotti – Fratta Polesine e dal 30 giugno al 9 luglio presso Magazzini del Sale – Cervia
https://martinarubera.com/
Festival del Tempo
Il primo festival in Italia che indaga il tema del tempo
di Roberta Melasecca
Tra settembre e ottobre 2020 si è svolto a Sermoneta (LT) il primo festival in Italia dedicato al tempo: nato da un’idea di Roberta Melasecca, curatrice, architetto e ambasciatrice del Terzo Paradiso Cittadellarte-Fondazione Pistoletto, il Festival del Tempo è un’indagine multidisciplinare e interdisciplinare sul Tempo, sul Passato, sul Presente e sul Futuro, un luogo dove “Costruire Pensieri, Generare l’Arte, Vivere il Tempo”.
Due ispirazioni
Il festival prende vita da due ispirazioni: la prima è una riflessione intima e personale, corale e collettiva del concetto di tempo, la seconda è generata dall’analisi urbanistica, territoriale e sociale del territorio italiano. Nel nostro immaginario collettivo abbiamo sempre visto e percepito il tempo come qualcosa che scorre uniforme: esiste un presente che è la realtà, un passato fisso, avvenuto, uguale per tutti e un futuro aperto ed indeterminato. Questo quadro, a noi familiare, si è ormai sgretolato, anche in seguito alle ultime scoperte della fisica quantistica, e si è dimostrato essere solo un’approssimazione di un’approssimazione di una realtà più complessa, come afferma Carlo Rovelli. Non c’è un solo tempo, infatti, ce ne sono tantissimi, uno per ogni punto dello spazio: il mondo è costituito non da cose che permangono, ma da eventi, accadimenti, processi e il fluire del tempo è la prospettiva particolare dall’angolo di mondo a cui apparteniamo. Ognuno di noi, pertanto, è un tempo interamente nel presente che si attua nella mente come memoria e anticipazione. Siamo memoria. Siamo futuro. Ogni storia personale e collettiva è plasmata da segnali e scie che si dipanano in un presente in continuo divenire e che costituiscono il nostro dna, il nostro profondo essere nel tempo e nello spazio, il nostro permanere nei luoghi attraverso successive stratificazioni. Costruiamo paesaggi urbani ed umani, ci adattiamo ad essi, li trasformiamo e li proteggiamo, scaviamo e ricostruiamo, ci nutriamo di narrazioni che fluiscono continue in oggetti ed azioni. Raccogliamo memorie e le usiamo per predire e generare il futuro, desiderando una sorta di atemporalità. Il tempo si poggia sui luoghi come velo completamente trasparente, che rivela celati desideri, ombre, immagini lontane e vicine, visioni di realtà coincidenti dove passato, presente e futuro si rincorrono. Qual è allora la nostra reale percezione del tempo, dello spazio, dello spazio-tempo? Da tale interrogativo nasce il desiderio di un festival che dipani diversificate visioni in ambiti multidisciplinari all’interno di un territorio, come quello italiano, disseminato darealtà, luoghi, centri e borghi nei quali il passatoemerge in modo preponderante con tutte le sue storie e tradizionie diventaattuale e attualizzato nella vita economica, sociale e comunitaria.
Perché un festival sul tempo
A noi tutti, dunque, appartiene un passato stratificato, un presente in divenire ed un futuro all’insegna dell’innovazione: il Festival del Tempo si rivela come un luogo necessario di confronto, di pensiero e di riflessione, di incontro e sinergie, un format per tutte le città italiane, capace di esprimere e delineare nuove e buone pratiche che si immergono profondamente nelle specifiche realtà territoriali ma che hanno alla base un substrato culturale e scientifico comune; coinvolge, innumerevoli discipline del pensiero e si materializza in molteplici attività, quali tavole rotonde, laboratori, concorsi, progetti artistici ed editoriali, spettacoli, ecc.. Il Festival del Tempo, inoltre, aderisce all’Agenda 2030 e ai 17 obiettivi ONU e il marchio è depositato presso il Ministero dello Sviluppo Economico.
Il passato, il presente e il futuro
Festival del Tempo 2020: mostra di arti visive e residenze artistiche frutto di due bandi internazionali con la partecipazione di 400 candidati.
Festival del Tempo 2021: da marzo sono stati attivati dei tavoli di lavoro con la partecipazione dei più diversi operatori culturali e attraverso i quali innescare il confronto su tematiche, modalità operative e attività da poter proporre in luoghi fisici e virtuali.
Per partecipare: www.festivaldeltempo.it
CREAZIONE RESISTENTE
Storie di confini dis-abitabili
Creazione Resistente è un progetto artistico multidisciplinare che nasce, a giugno del 2020, a Fano dall’incontro di artisti, provenienti da differenti ambiti, uniti da uno stesso desiderio: esplorare le possibilità di una contaminazione dei rispettivi linguaggi. Ciò è possibile grazie alla creazione di interventi scenici che gli artisti lasciano accadere in luoghi specifici, dove la ricerca musicale, fotografica, visiva e performativa vanno a intrecciarsi e ad esplorare nuove possibilità di dialogo, fra loro e con gli spazi che di volta in volta si incontrano.
A seguito degli eventi accaduti nei mesi di Marzo e Aprile, durante i quali si è vissuta l’impossibilità collettiva di abitare e condividere lo spazio pubblico e di conseguenza l’impossibilità di esistere come corpi politici oltre che come artisti, si è avvertita l’urgenza comune di tornare al lavoro con una ricerca che fosse incentrata sulla possibilità di indagare in profondità tutti quegli aspetti del vivere umano ai quali era stato vietato l’accesso. La possibilità di abitare in maniera creativa lo spazio pubblico, di lavorare in presenza e “vicinanza”, di creare un’alleanza che possa sostenere la precarietà dei nostri corpi contemporanei preservando la loro libertà e forse, più di ogni altra cosa, di risuonare in modo semplice e originario con le persone: tutto ciò affinché l’arte sia libera di attraversare le strade di questo mondo, fermandosi di tanto in tanto ad incontrare le storie e le persone che le abitano, accogliere gli imprevisti, condividere un’esperienza e rimettersi in viaggio.
Il processo creativo dei professionisti consiste nell’immergersi nel vivo della ricerca esperienziale attraverso l’utilizzo di tecniche meditative, volte a favorire una connessione sottile fra le “storie” che abitano i loro corpi e le “storie” che abitano i luoghi. In questo modo viene decentrata l’importanza del copione a favore di una modalità creativa più fluida, che nasce dai vissuti reali delle performers immerse nel respiro e nell’ascolto, tanto dello spazio interno al proprio corpo quanto dello spazio esterno abitato da altri corpi.
Il focus della ricerca di quest’arte verte sulla possibilità di ri-significare i luoghiche si vanno ad abitare, sperimentando anche tecniche performative non interpretative capaci di sfilacciare i confini fra realtà e finzione, fra arte e vita.
Nella scelta degli spazi, viene condiviso un particolare interesse per le architetture urbane, che nel “bel paese” sono quasi sempre fonti inesauribili di ricchezza storica e artistica, oltre che ponte di riconnessione alle radici culturali di ciascuno. In questo modo ci si adopera per stabilire una connessione orizzontale con l’atto creativo, sperimentando la possibilità di abitare il territorio in maniera transitoria. Una modalità dal carattere intrinsecamente provocatorio, che solleva interrogativi circa il luogo dell’arte, la crescente intolleranza e la necessità di resistere come pilastri fondanti di questa stessa società.
Creazione Resistente vuole essere un incentivo per generare cultura; la natura ibrida della ricerca ha caratteristiche che rendono possibile l’ampia copertura e l’inclusione di diversi profili di pubblico, oltre ad un linguaggio che dialoga e provoca immediato interesse ed empatia attraverso il suo formato dinamico e vertiginoso. Nelle presentazioni pubbliche gli spettatori sono sempre guidati attraverso lo spazio in cui si svolge l’azione e invitati a partecipare come corpo attivamente immerso dentro un’esperienza sensoriale ed emozionale.
CREAZIONE RESISTENTE
Progetto di creazione multidisciplinare site-specific
Direzione artistica e orientamento formativo: Francesca Tomassetti
Performers: Caterina Riceci, Elena Cerreti, Jessica Ricciardelli, Alice Sabbatini
Musiche: Amando Coli
Fotografia: Plinio Marsan
Produzione: La Tasca Teatro & Officina Amaranta
“Hell in the cave” – Anime in transito
di Lilli Susca
Transizioni. Passaggi. Trasformazioni fisiche e metafisiche durante e grazie a un viaggio. La Divina Commedia ne è un esempio formidabile. E allora parliamone attraverso le suggestioni di uno spettacolo unico al mondo, dal titolo “Hell in the cave”. Una compagnia di attori, ballerini e funamboli, diretti dal regista pugliese Enrico Romita, interpreta un gruppo di anime dannate fra cui emergono alcuni fra i personaggi danteschi più noti, come Pier Delle Vigne, Paolo e Francesca, Ulisse. Fin qui nulla di nuovo. Ma la straordinarietà sta nel palcoscenico che è stato scelto per questa performance: le grotte di Castellana, in particolare la “grave”, la monumentale grotta principale del complesso carsico. Già durante la discesa lungo i duecentosessanta scalini scivolosi, ci si rende conto che di discesa agli inferi si tratta, non certo di una innocua visita alle grotte. Perché ad accogliere chi vi giunge ci sono già due anime dannate, che scivolano distese lungo i gradini, blandendo caviglie di visitatori guardinghi e dubbiosi se proseguire o meno. Intanto nel tunnel discendente, illuminato da tetre luci rosse, risuona una voce che ripete in loop il verso “lasciate ogni speranza o voi che entrate”. La sensazione all’inizio è di essere entrati in una maestosa giostra della paura, o in una versione in Cinemascope dei sotterranei di Madame Tussauds, e i palati più fini potrebbero cominciare a storcere il naso pensando che a quello si limiterà il tutto. Ma così non è, proprio per niente: perché questo spettacolo entra nelle viscere passando dal cervello e ogni parte del corpo non si limita a osservare, ma vi partecipa, sentendosi coinvolta in prima persona. Perché, per quanto atei, scettici o agnostici si possa essere, la paura dell’inferno è una tara atavica, un buco nero che ingloba chiunque, che risucchia e intrappola ogni volta che ci si imbatte in richiami di qualsivoglia natura. Così lo spettacolo da guardare è ovunque nella grotta: su entrambi i lati della grave, attraversata da una passerella lungo la quale gli spettatori sono distribuiti; in mezzo e sopra gigantesche stalagmiti, lungo i letti impervi di fiumi antichi che attraversano le formazioni carsiche; nel cielo della grotta, a mezz’aria fra la terra di sotto e quella di sopra; ma anche sulla passerella, non solo perché la stessa è più volte attraversata dalle anime dannate – sia da sole che in schiere terrificanti -, ma anche perché il pubblico stesso è parte dello spettacolo. È curioso vedere come l’essere umano reagisca al terrore più o meno negli stessi modi: tenendosi stretti al proprio caro, se si è in compagnia; urlando bestemmie, di tanto in tanto, ma il più delle volte ridendo. Già, ridendo! Per scacciare la paura, per prendere le distanze dalla stessa.
Questo è ciò che appartiene alla sfera delle viscere. Ora saliamo un po’ e andiamo lì, in mezzo al petto. Se si è innamorati, o se lo si è stati almeno una volta nella vita, non si può restare indifferenti davanti a due anime che, sospese nel vuoto, danzano la loro passione e la loro dannazione. “Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vengon per l’aere, dal voler portate”. I due attori volteggiano sospesi senza mai potersi sfiorare, separati da una membrana che permette loro di vedersi ma non di toccarsi. Lei indossa una veste bianca lunghissima, che si staglia nell’oscurità della grotta e che quasi ipnotizza con il suo ondeggiare lento e sinuoso. E intanto quei versi, arcinoti ma sempreverdi, sembrano danzare anch’essi nel vuoto di quell’alveo sotterraneo, fino ad arrivare proprio a te, spettatore inerme, che alla fine della scena non puoi che sospirare rovinosamente all’unisono con il resto della platea.
Se anche fossi uno spettatore poco incline al sentimento amoroso e questa scena non ti smuovesse dentro un granché, allora si arriverà ancora più su, fino alla testa. Non si può di certo affermare che questa sia una rappresentazione fedele dell’Inferno di Dante, ma i suoi versi vi trovano spazio, risuonando austeri e capaci di incutere soggezione nei presenti. L’eco delle parole dantesche, così familiari a tutti, rimbalza sulle pareti della grotta e riporta indietro nel tempo, ai banchi di scuola, quando un “poscia” sembrava un ostacolo eccessivo e inutile alla comprensione dei fatti narrati. Ma in quella cornice maestosa il linguaggio dantesco sembra assolutamente appropriato, come se si capisse finalmente che quei versi affondano le radici nel ventre della terra e da lì ambiscono a “rimirar le stelle”.
Il sottotitolo dello spettacolo – versi danzanti nell’aere fosco – dice tutto, o quasi: suggerisce che si tratta di un’esperienza sensoriale, di una messinscena tutt’altro che tradizionale, bensì composita, sinestetica e principalmente figurativa. Un’esperienza, più che una performance, unica ma ripetibile. Perché quello che può succedere ad alcuni spettatori, dopo aver pianto per l’emozione di aver visto una cosa così bella, è che decidano in quel momento di volerci tornare al più presto.
“Hell in the cave” viene rappresentato solo nelle grotte di Castellana, in provincia di Bari. Per tutte le informazioni, un invito a consultare il sito web dedicato: www.hellinthecave.it.
Corpi Senza Ossa
Reminiscenze sacre nella cyborg society
di e con Lara Barzon e Francesca Tomassetti
È un progetto di ampio respiro che sorge dalle immagini evocate dall’antica leggenda de La Loba, tratta da “Donne che corrono coi lupi” di Clarissa Pinkola Estés.
C’è una vecchia che vive in un luogo nascosto che tutti conoscono ma pochi hanno visto, pare in attesa di chi si è perduto, di vagabondi e cercatori. L’unica occupazione della Loba è la raccolta delle ossa. Raccoglie e conserva in particolare quelle che corrono il pericolo di andare perdute per il mondo. La sua caverna è piena delle ossa delle più varie creature del deserto: il cervo, il crotalo, il corvo. Ma si dice che la sua specialità siano i lupi.
Striscia e setaccia le montagne e i letti prosciugati dei fiumi, alla ricerca di ossa di lupo, e quando ha riunito un intero scheletro, quando l’ultimo osso è al suo posto, allora siede accanto al fuoco e pensa a quale canzone cantare. E quando è sicura, si leva sulla creatura, solleva su di lei le braccia e comincia a cantare. La Loba canta ancora, e le creature tornano in vita. E ancora la Loba canta e il lupo comincia a respirare. E ancora la Loba canta così profondamente che il fondo del deserto si scuote, e mentre lei canta il lupo apre gli occhi, balza in piedi e corre lontano giù per il canyon. Così si dice che, se vagate nel deserto ed è quasi l’ora del tramonto, e vi siete un po’ perduti e siete stanchi, allora siete fortunati, perché forse la loba può prendervi in simpatia e mostrarvi qualcosa, qualcosa dell’anima.
Da questa leggenda parte il nostro viaggio alla ricerca dell’anima, un’anima che troppo spesso ha perso consistenza divenendo sostanza immateriale e astratta. Grazie alla figura della Loba, l’anima ritrova finalmente il suo posto nello spazio fisico più interno al nostro corpo: le ossa. E’ un’indagine sulla precarietà insita nella condizione umana: nasciamo con ossa tenere, viviamo fin da subito l’impossibilità di sostenerci da soli. Per nascere davvero abbiamo bisogno di essere guidati da un’anima antica; per vivere davvero abbiamo bisogno di allearci.
A questa precarietà originaria, che trascende lo spazio e il tempo, si affianca una precarietà che potremmo chiamare “contemporanea”, radicata nel momento storico che stiamo attraversando, caratterizzato da un mondo frammentato, dove i nostri corpi sono sempre più corpi senza ossa.
Corpi senza ossa è prima di ogni altra cosa una ricerca di metodo, un processo che ci porta ad attraversare con tutto il nostro corpo strutture fatiscenti, pericolanti, luoghi abbandonati, indagando le vite invisibili che si nascondono in questi spazi sgretolati, perché la Danza e il Teatro sono nulla se non si sporcano di verità, di vissuti, di spazi urbani, con i quali amalgamare il processo creativo.
A tale proposit,o è fondamentale la collaborazione con Fausto Ribeiro, regista attivo in Brasile e Uruguay, esperto di drammaturgia urbana, che ha deciso di sposare il progetto e di arricchirlo con il suo orientamento artistico e registico.
In questa prospettiva non convenzionale abbiamo deciso di non usare scenografie, se non quelle offerte dagli spazi che mano a mano andiamo ad attraversare, e di lasciare invece ampio spazio alla ricerca sui costumi, diretta da Giovanna Ferrara, i quali nelle loro possibilità metamorfiche vanno a costituire il paesaggio all’interno del quale si svolge l’azione.
Grazie alla collaborazione con la musicista e compositrice Maddalena Juno Bianchi, la ricerca corporea, materica e spaziale si mescola a quella musicale. In questo modo la musica entra nel processo di trasformazione della materia divenendo a tratti il corpo e la voce della musicista in scena, a tratti suono etereo proveniente da sorgenti inaspettate. In quest’ottica, l’atto teatrale e danzato è solo uno degli strumenti di ricerca. Per questa ragione abbiamo deciso di aprire la nostra esplorazione ad altri linguaggi, come ad esempio quello della fotografia e della videoperformance.
Il progetto prevede inoltre fasi di ricerca con gruppi di provenienza eterogenea (artisti, performer, danzatori, ma anche non professionisti), attraverso workshop volti alla creazione di performance, video performance con sperimentazioni nello spazio urbano e naturale, oltre che laboratori di ricerca fotografica.