di Daniela Di Pinto
Roma è il nome del quartiere di Città del Messico che dà il titolo al pluripremiato film di Alfonso Cuaròn e in cui si trova la casa nella quale confluiscono le vicende di una famiglia messicana. Il regista ripesca alcuni ricordi dalla sua infanzia per comporre la propria proiezione recitata in lingua spagnola. Il bianco e il nero fanno da sfondo all’impeccabile cornice scenografica. Processioni e rivolte, separazione e matrimonio, alta borghesia e povertà, spazi chiusi e sconfinati, musica dei piani alti e dei bassifondi. Cuaròn cerca a tutti i costi di mostrare le ambiguità e le contrapposizioni della vita facendole coesistere in un’unica scena e, in seconda battuta, nel complesso dell’intera pellicola. Anche all’inizio e alla fine del film sembra esserci un collegamento tra i due fermi immagine, nei quali il tempo appare dilatarsi. Si entra e si esce dal film in punta di piedi. E non potrebbe essere diversamente, considerando l’intensità del dramma in cui ci si ritrova coinvolti . L’androne della magnifica casa diventa luogo di transito di diverse generazioni che vengono tutte abbandonate; è anche il luogo da ripulire dagli escrementi, una metafora del dolore che unisce e attraversa i personaggi, sconfinati nelle loro solitudini. Il Maschile viene rappresentato come colui che infligge dolore, nonostante in una delle scene più forti del film emerga la figura di un medico che delicatamente prova a sostenere l’angoscia della protagonista. Anche il Femminile viene declinato in varie forme: prevale la figura della domestica, l’eroina nella sua dolcezza, apparentemente fragile, che si ritrova a essere curata dalle donne della famiglia per la quale lavora. Si assiste a uno scambio di salvataggi e di cure. Nel dolore i vari mondi s’incontrano per lenire le ferite l’uno dell’altro e per far avvicinare al pensiero dell’universalità della Cura.