di Barbara Gubinelli
Immobilità e ripetizione. C’è una dimensione temporale della vita psichica caratterizzata “dall’immobilità”[1], dall’inerzia. La si scorge ogni volta che, nell’esperienza di un soggetto, qualcosa si ripete, uguale a se stesso, imbrigliandolo in eventi, comportamenti, accadimenti che mantengono la caratteristica della fissità. Possono essere pensieri o azioni che ci si sente spinti a compiere da una costrizione interiore[2] e caratterizzati dall’impossibilità di essere rimossi per influsso della volontà[3]. Più spesso ci si trova coinvolti in situazioni che si ripetono sempre identiche a se stesse. Si tratta di circuiti forieri di lamento e di grande sofferenza che possono assumere le più svariate forme sintomatiche: vissuti ansiosi ricorrenti che assalgono il soggetto quando meno se lo attende, comportamenti ossessivi paralizzanti, il ripetersi di vicissitudini amorose contrassegnate dai medesimi tratti di tormento, l’esistenza di un costante impedimento a realizzare qualcosa che si dice di desiderare. Sono solo alcune delle vesti che i vissuti del soggetto possono assumere e che, piuttosto che proiettarlo verso il divenire, lo confrontano all’inciampo, all’arresto e alla ripetizione.
C’è dunque nella vita di un individuo una forza irreprimibile, che spesso sembra muoverlo non tanto verso la ricerca del proprio piacere o di un supposto benessere. È Freud a sollevare, col discorso psicoanalitico, lo scandalo di un soggetto contro sé stesso. L’essere umano è attraversato da un’ambivalenza profonda: la sua vita pulsionale è segnata, da una parte, da una spinta che lo riporta all’indietro e che travalica la ricerca del piacere, mentre sull’altro versante la vita è progetto, divenire.
Il sintomo, che il soggetto lamenta, è il luogo, dunque, dove piacere e sofferenza si danno in una mescolanza ambigua. Si tratta di una formazione di compromesso che, se da un lato lo tormenta, dall’altro dispensa un tornaconto garantendogli infatti un ordine, una stabilità. Da qui il suo carattere ripetitivo ed inerziale.
Un’opportunità di ripartire[4]. Il sintomo è qualcosa che fa segno ma di cui non si capisce niente[5]. Può accadere però che il soggetto inizi ad interrogarlo, ad interrogarsi!. L’incontro con un terapeuta introduce il tempo del sapere[6]. Si tratta di un tempo logico, il cui dispiegarsi può consentire a ciascuno di reperire le coordinate inconsce del proprio discorso sintomatico. Al di là della similarità fenomenica con la quale un certo disagio si presenta infatti, c’è, per ciascuno, il nome singolare della propria sofferenza. Questa operazione non consiste in una semplice elaborazione del passato. La temporalità del soggetto non si riduce cioè solo ai vissuti del passato. Come scrive J. P. Sartre “L’importante non è ciò che gli altri hanno fatto di noi, ma quello che noi facciamo di ciò che gli altri hanno fatto di noi”. Il lavoro analitico dunque non consiste tanto in un recupero del passato ma punta alla scrittura di qualcosa che ancora non è mai stato scritto. Il tempo storico dell’essere umano è essenzialmente una riscrittura, una risignificazione del passato che però ha effetti nel presente ed è orientata dall’apertura rispetto all’avvenire. Soggettivare il proprio passato per reperire il proprio desiderio singolare e poter scrivere ciò che non è stato ancora scritto: sono imprese che offrono al soggetto, qualora voglia coglierla, un’opportunità. L’opportunità di ripartire.
[1] SIGMUND FREUD, Recensione a “I fenomeni psichici di coazione” di Leopold Lowenfweld”, in Opere, vol IV, p . 422
[2] JEAN LAPLANCHE, JEAN-BERTRAND PONTALIS, Enciclopedia della psicoanalisi, ed. Laterza, Bari 1997, vol I, p. 78
[3] SIGMUND FREUD, Recensione a “I fenomeni psichici di coazione” di Leopold Lowenfweld”, in Opere, vol IV, p . 422
[4] “La psicoanalisi è un’opportunità, un’opportunità di ripartire”, JACQUES LACAN, Il mio insegnamento. Io parlo ai muri, p. 65
[5] JACQUES LACAN, Il Seminario., Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante, Einaudi, Torino 2010, p. 46
[6]“l’immistione del tempo di sapere”, JACQUES LACAN, Scritti, cit., p. 322, n. 2.