Accudire l’esistenza
di Mariangela Valentini
Rizoma è al suo terzo passo. E ha scelto un tema sottile, ma di costante presenza in ognuno: il prendersi cura. Curare ed essere curati ci occorre e ci dispensa, ci redime e ci avvia verso nuove scoperte interiori, seppure, talvolta, sofferte. È un filo rosso del nostro racconto di viaggio che segue le tematiche dei numeri precedenti: “Educare ed educarsi” e “Transizioni”. Un’esperienza di scrittura che non è, come può sembrare, solo d’impatto, dettata dalla spinta della cronaca degli ultimi mesi, dall’essere stati travolti da un virus che ha sfiorato corde antiche delle nostre esistenze. Un virus che le ha spezzate e appese ai fili oscuri della paura, della morte e del contagio, annidandosi dietro un angolo, improvvisamente, a ridosso della nostra quotidianità condivisa. Ma è un viatico che fin dalle sue radici primarie ha sempre attraversato l’umanità.
La malattia e la cura assumono sfumate forme e modalità: dall’accudimento femminile nei riguardi dei figli e della famiglia, con un’innata vocazione alla rinuncia del “sé”, al suo significato greco che abbraccia invece il “conosci te stesso”, come disciplina etica della soggettività, della sua capacità di trasformare la realtà attorno, partendo dal proprio centro di vita, per passare attraverso metodi terapeutici che nel nostro tempo sono spesso indotti dai poteri forti delle industrie farmaceutiche.
Le Medicine specialistiche, occidentali in particolare, pur nell’indiscutibile valore delle capacità e delle tecniche curative in determinate situazioni, sono talvolta “solo” in grado di osservare e curare la malattia, ma non più capaci di soffermarsi allo sguardo del malato: hanno come perso la loro antica empatia olistica e virano piuttosto verso il risolvere il dolore e la sofferenza più comodamente, più placidamente; restano all’apice delle sintomatologie e non tra le sue viscere, ammansendo la salute individuale e collettiva degli individui in nome di un benessere sociale che non ammette fallimenti. Ci sono poi tutti coloro per cui la cura è missione, è lavoro, è sfida quotidiana, o chi, nelle sue poliedriche variabili, la intende come impegno e premura verso l’altro, sublimando il proprio bisogno di accudire. È una parola eterna ed estrema, che si apre all’etimologia del desiderio e dell’accoglienza nelle relazioni d’amore tra madre e figlio, tra amanti e amati, pur nello strazio degli abbandoni; un’attitudine innata che si fa centro di ruota tra i percorsi degli uomini.
Meditare ha la stessa radice di medicina: è cura, è prendersi cura. La parola sanscrita pali è causativo del verbo essere: portare ad essere, coltivare la mente ed il cuore, un’arte dell’attenzione che non ci preserva dalle turbolenze ma ci insegna a non restare nel porto della rassicurazione e della fuga. La cura, così intesa, può essere un percorso d’ininterrotta carezza ai rischi che ogni esistenza fatalmente comporta.