di Valeria Mammarella
Il terreno che a ogni genitore spetta di coltivare è spesso cosparso di ostacoli che non agevolano la riuscita della semina, della trasmissione transgenerazionale di quei valori interni potenzialmente stabili su cui fondare le radici del proprio Sé. Una delle fasi più impervie e travagliate del lungo lavoro genitoriale è sicuramente il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, un limbo dalle infinite potenzialità ma di difficile gestione da parte delle figure di accudimento principali. Un campo minato sul quale ogni passo falso può causare l’innesco inaspettato di un ordigno.
Chiunque abbia dei figli, presto o tardi, si trova a dover affrontare quel momento delicato in cui il proprio bambino, da individuo del tutto dipendente dal genitore, oltre che suo più grande ammiratore, inizia una subitanea trasformazione in un animale sconosciuto, dal linguaggio e dalle idee incomprensibili, dall’umore volubile e con un improvviso bisogno di autonomia e riconoscimento.
L’unica speranza di uscire del tutto indenni da questo terreno minato, sia per i genitori che per i ragazzi, risiede nell’aver instaurato dei forti legami durante le prime fasi di sviluppo, delle basi solide su cui poggiare una crescita il più possibile lineare e resistente alla burrasca. È principalmente merito di un attaccamento sicuro, fondato sulla disponibilità e la responsività del caregiver ai bisogni del proprio figlio, se il ragazzo si ritroverà alle soglie dell’adolescenza con dei modelli interni stabili di relazione, a partire dai quali instaurare rapporti amicali e sentimentali funzionali e positivi. Solamente un legame basato sulla reciproca fiducia consente una comunicazione genitore-figlio efficace, non solo relativamente alle attività con cui il ragazzo impegna le proprio giornate, ma anche per quanto riguarda sentimenti, emozioni, situazioni esperiti con i pari. È infatti comprovato che una maggiore fiducia interpersonale da bambini favorisca in adolescenza un comportamento prosociale, oltre che un miglior adattamento e una minore tendenza verso il ritiro e la solitudine.
Se da una parte la sfida di sviluppo centrale per l’adolescente risiede nell’acquisizione di una maggiore autonomia, dall’altra ai genitori tocca l’arduo compito di ponderare le sue richieste e di giudicare se sia o no abbastanza maturo per compiere determinati passi. Questo senza rischiare di rendere ancora più gerarchica una relazione già per sua natura sbilanciata, ma garantendo il più possibile una certa reciprocità, che infonde al ragazzo un senso di empowerment ma al contempo non lascia spazio a pericolose sovversioni. Se il rapporto viene percepito dall’adolescente come impari, attecchiranno maggiormente la disonestà e la resistenza, spesso utilizzate come mezzi per affrontare le ingiustizie percepite.
Il genitore deve, in un certo senso, calarsi nel ruolo di supervisore a distanza, tenendo al sicuro il ragazzo ma senza tarpargli le ali, e ciò è possibile solamente se da parte sua c’è una ferma fiducia nell’affidabilità del proprio figlio.
Le fondamenta di questa relazione di fiducia reciproca risiedono nell’onestà e nella trasparenza, grazie alle quali non può nascere il conflitto che è solito derivare da differenti interpretazioni di compiti e ruoli tra genitori e figli. L’adolescente deve poter esperire un senso di sicurezza tale da non provare imbarazzo o vergogna per il proprio sentire e per il proprio operare, e quindi da rivelarsi più apertamente.
Il tutto senza tralasciare il fatto che anche la decisione sul se, il come e il quando confidarsi con i genitori rappresenta un ulteriore passo verso la sua autonomia personale, e come tale andrebbe rispettato senza incorrere in costrizioni di sorta.
Come per una piantina sono indispensabili acqua, sali minerali, luce, così la fiducia del caregiver può rappresentare il fertilizzante da cui l’adolescente trae la forza vitale necessaria per crescere, irrobustirsi e fiorire.