di Ilenia Dell’Aera
Non sono nata a fine Settecento. Ma la solennità che i miei studi classici hanno imposto al concetto di libertà rimanda ai fasti insurrezionali della Rivoluzione francese, alle Carte Costituzionali, al primo Emendamento Americano, alla Carta dei Diritti dell’Uomo, caposaldo dei valori fondanti dell’Unione Europea.
Molti di questi articoli di legge sono stati pilastri della mia formazione. Perni di produzione giurisprudenziale internazionale. Argomenti di controversie geopolitiche (pensiamo alla Polonia e all’Ungheria di pochi mesi fa). Temi altissimi, direbbero i miei amici. Da scuole alte.
Eppure è da tanto che assisto a una narrazione nuova. Che tanto mi incuriosisce. Quanto mi inquieta.
Tra le parole Chiave più adoperate, negli ultimi anni, nella produzione di spot pubblicitari, c’è il termine LIBERTÀ. Indiscutibilmente dotata di energie positive e di una biografia altisonante e accessibile, la Libertà ha finito per rappresentare tutto. Dalla libertà di comunicare (telefonia, abbonamenti, cellulari), alla libertà di indossare ciò che vuoi quando vuoi (assorbenti, da donna e da uomo), alla libertà delle prenotazioni aeree. Solo per citarne i più ridondanti.
Sono confusa. Troppa libertà mi stordisce. Ho bisogno di una norma che normi. E allora mi chiedo: la libertà è la regola o l’eccezione?
A furia di rivendicarne usi legittimi e impropri, abbiamo alzato non solo l’asticella della pretesa d’utilizzo, ma anche incentivato una certa produzione creativa. Di libertà, appunto. Per cui, accanto alle sopracitate, contemplate a scopi commerciali – uso imbarazzante, ma onesto- la sperimentazione sociale ha raggiunto vertici sorprendenti per gli stessi padri costituzionali, per Robespierre & co. Le libertà diventano così argomenti di fantasia, svincolate da principi di realtà e dal limite che ognuno di noi dovrebbe incontrare nel rispetto della libertà altrui.
E cosi la libertà, con i suoi impieghi illegittimi e anarchici, produce rei, peccatori e correi.
Ai tempi in cui le libertà si conquistavano e si sancivano per iscritto, sono arrivati i tempi in cui il peccato e il reato, sono lievitati. E non solo numericamente. Essendo direttamente proporzionali alle libertà garantite e a quelle frutto dei nostri personalissimi bisogni.
I peccati e i reati si sono fatti più innovativi. Si sono svecchiati, aggiornati, chiedendo alla Chiesa e ai Legislatori di tenere il passo e di formulare soluzioni, penitenze. I codici penali e civili si sono arricchiti, ammonendo un fare umano che ha fatto delle libertà il Parnaso delle proprie esistenze.
I tempi delle ammonizioni, come quello delle libertà, è ostaggio del presente. Ma ne è anche lo specchio sociale e antropologico più attendibile.
Il mondo digitale con il quale siamo tutti imparentati, riscrivendo le regole delle relazioni, espone le stesse a distonie non ancora regolamentate dai tanti Garanti della Privacy, eppure immediatamente dannose e deleterie per la civiltà della comunicazione.
Il tempo passa. La terra obbediente fa il suo giro e noi combattiamo per libertà nuove, impreviste, che non possono trovare ostacoli nemmeno in una pandemia globalizzata. Il diritto all’aperitivo è inviolabile quanto uno di quelli casualmente finito nell’art. 2 della nostra Costituzione.
Il tempo ripassa. E la memoria si fa labile e impotente se torna indietro a guardare dove tutto è nato.
Eppure, se produciamo nuove libertà è perché abbiamo nuovi bisogni. I bisogni spingono le comunità in avanti. Sono leve di motivazione. Le leggi sono nate per permettere alle libertà di convivere, garantendo un miglioramento della vita umana. La storia del mondo è andata così. Eppure il mondo deraglia. Spesso. Sin da quando è nato. Anche senza l’aggravio del peccato originale, l’uomo inciampa. E rincorre il tempo delle assoluzioni.
Ci pensò nel 1294 Papa Celestino V, il patron del “gran rifiuto” dantesco, inventando a L’Aquila la primigenia forma di indulgenza plenaria, la Perdonanza, patrimonio dell’Unesco dal 2019.
Sì, perché il tempo è complice di questa macina di produzione di libertà improbabili e di distruzione di sistemi che nelle norme trovano le impalcature, anche etiche, delle nostre convivenze.
E allora, a chiudere il cerchio, arrivano i tempi della Perdonanza, delle paci fiscali, dei condoni edilizi, degli indulti e delle grazie, compresa la famigerata vendita delle indulgenze che con Papa Leone X fiorì in tutta la Germania scatenando le ire di Martin Lutero.
La terra, che è piatta (secondo le libere teorie di fantasiosi scienziati), a un certo punto si è addirittura fermata. Dicunt. Si è fermata a guardarci. A seguire quei flussi che cambiano il mondo, e lo sovvertono. Li ha messi tutti insieme, cercando di tirarne fuori i migliori, come Obama, con l’American Dream, le aveva insegnato.
E cosa scopre? Un mondo dove neanche la misura del tempo è più un punto di riferimento. Un mondo dove tutto ciò che è mio, arriva dagli altri. Un mondo che chiama all’insurrezione contro il dolore e il male che tengono in pugno l’uomo. Anelli di miseria che ricordano la condizione disperata e ribollente e manipolabile dei miserabili dell’Ottocento.
Il mondo ha fatto un giro lungo. In compagnia del tempo. E dell’uomo che impara e disimpara con la stessa velocità e scaltrezza. Che obbedisce e disobbedisce, come una risacca genetica.
Le libertà, con i suoi eccessi illegali, producono reati. E peccati. Pietre d’inciampo per coscienze che confondono il pluralismo con la somma delle parzialità.
I più assennati invocano la Giustizia. Che è, ahimè, un concetto solo umano. E come tutte le cose umane, spesso sbaglia.