di Maria Grazia Argalia
Mai come in questo tempo di pandemia per un medico è stato necessario, ma anche difficile, prendersi cura dei suoi pazienti.
Prendersi cura nonostante la paura di morire e di infettare i proprio cari, rispondendo prontamente alla deontologia della professione medica.
Al di là di quanto i servizi sanitari nel corso della storia si siano indirizzati verso una prestazione caratterizzata da asepsi e impersonalità – che raramente si configura come prevenzione, con conseguente aumento di paradossalità iatrogene – il medico generico e il personale sanitario meno specializzato conservano comunque un forte ruolo di assistenza anche morale.
Purtroppo questo tipo di prestazione non trova un adeguato riconoscimento nell’attuale sistema sanitario, anche se occupa in maniera informale una parte molto importante del tempo lavorativo degli addetti alla sanità.
Ciò avviene anche a causa della diffidenza ancora molto diffusa della nostra cultura verso professionalità socio- e psicoassistenziali, con la conseguenza che queste prestazioni vengono lasciate per lo più alla responsabilità dei singoli, alla cui preparazione è dedicato pochissimo spazio nella maggior parte dei percorsi di studio e di formazione sanitari.
Durante i primi mesi della pandemia, tanti errori sono stati fatti sicuramente per questioni tecnico-organizzative – con tutte le attenuanti relative ad una patologia nuova di cui ad oggi si sa ancora ben poco – ma molti altri anche per l’incapacità conclamata di gestire lo stress emotivo e psicologico che tutti gli operatori sanitari si trovano ad affrontare in questi frangenti.
Le ONG che offrono prestazioni sanitarie in contesti di emergenza, calamità, scenari di conflitto armato, carestie ed epidemie lo sanno bene, grazie all’esperienza acquisita da anni sul campo: è ormai prassi consolidata offrire supporto psicologico ed emotivo a chi opera in contesti difficili.
Proprio per questo è possibile sostenere, generalizzando un po’, che la migliore risposta al contagio è arrivata anche da quei medici anonimi e sconosciuti, clinici abituati a stare in trincea, a gestire concretamente alti livelli di stress, che avevano gli strumenti psicologici ed emotivi per poter percepire con lucidità, chiarezza ed obiettività la situazione, chiudendo tempestivamente le porte al contagio e difendendo prima di tutto le categorie più fragili , bacino preferenziale di incubazione e diffusione di un virus.
Dall’altra parte, c’è stato modo di notare le grandi difficoltà di diversi dirigenti a qualsiasi livello, perché essi più di tutti sono lontani, nella loro quotidiana esperienza, dallo specifico tipo di stress a cui situazioni come questa sottopongono.
Anche l’eccessiva autonomia delle istituzioni sanitarie territoriali rispetto alla dirigenza e al governo nazionale ha prodotto situazioni incoerenti e ostacolato l’operatività come i processi decisionali.
Si è assistito contemporaneamente al disastro del sistema sanitario lombardo, al limitrofo successo relativo di quello veneto e alla differente risposta alla diffusione del virus nelle case di riposo nella regione Marche.
Lo schieramento di ONG sanitarie è stata una extrema ratio, che evidenzia però ulteriormente i deficit che hanno portato alla mancanza di una risposta efficace.
Insomma, dietro all’errore tecnico e organizzativo c’è quasi sempre un errore di valutazione e di giudizio, che poggia soprattutto sulle competenze e capacità psicologiche ed emotive dei decisori.
È bene che la consapevolezza di queste criticità sia diffusa e venga posta al centro del dibattito pubblico e politico.
Negli ultimi trent’anni, si è verificato un lento ma inesorabile smantellamento del servizio pubblico a favore di una parallela implementazione della sanità privata, nonché della gestione di tipo aziendale della Sanità che, invece di razionalizzare e rendere più efficace ed efficiente il sistema, ha avuto occhi solo per i ritorni economici a brevissimo termine. Come se il ritorno in salute della popolazione a medio e lungo termine non avesse alcun valore sulla bilancia economica della nazione.
Riparare, aggiornare, individuare le criticità, trovare soluzioni e implementare un sistema significa prendersene cura. Certo, richiede risorse che non avranno un ritorno economico immediato, ma solo nel tempo, e richiede una progettualità, uno sguardo rivolto al futuro.
Bisogna anche essere consapevoli che buttare il vecchio per il nuovo si traduce in una spesa ben maggiore per la collettività, senza contare poi tutte le esternalizzazioni che a molti non piace vedere.
Come questa pandemia ha mostrato, non è auspicabile pensare a una collettività, una nazione, una comunità europea che non si prenda cura di se stessa in maniera sistematica e organizzata, né che si rimandino queste necessità alla responsabilità e possibilità dei singoli e dei privati. E nemmeno è possibile concepire un sistema sanitario come un’azienda, che col suo prodotto soddisfa bisogni non essenziali né necessari, ma spesso indotti e futili e sicuramente non indirizzati ai cittadini di ogni genere, comprese le fasce più deboli e non riconosciute della popolazione. Le aziende non nascono e non esistono per prendersi cura delle persone e dei loro interessi generali, ma le istituzioni, seppur con i loro limiti, sì.