di Costanza Ceccarelli
(Respice post te. Hominem te memento, Tertulliano, Apologeticum, XXXIII, 4)
Tra le molte parole che potrebbero accompagnare il nostro tempo presente, dovremmo considerare il termine “memoria”. Memoria dell’incursione spaesante e paralizzante del veleno (dal latino vīrus, “veleno”), del parassita obbligato, in quanto può vivere e riprodursi solo all’interno delle cellule degli organismi. Memoria, dunque, come termine che veicola l’idea dell’ostacolo che impedisce di guardare avanti. Accanto ad essa, tuttavia, in un rovesciamento prospettico, potremmo aggiungere un’altra parola significativa: la “cura”. La memoria che si fa cura, nel divenire memoria e cura di sé.
Data la condizione propria all’umano, la cura sta sempre a fianco, come manutenzione e accudimento della propria vita. Gli eventi dicono, infatti, dell’incertezza della condizione umana, pure gli uomini non paiono preparati a ciò che è ovvio: vulnerabilità, incertezza, permeabilità agli eventi sono la normalità, strutture dell’esistenza. Interessante osservare, invece, la pervasività dell’oblio, delle molteplici strategie di evasione, attraverso cui distrarsi e chiudere la porta alla verità di questo stato, di questa condizione di “esposizione” all’incertezza della vita. Vivere sembrerebbe, allora, voler dire obliare questo elemento decisivo della fragilità intrinseca dell’umano, operare la quotidiana rimozione di questa consapevolezza.
A fronte del proliferare di meccanismi di distrazione e di oblio da sé e di sé, pare non rimandabile una riflessione profonda sul recupero della memoria di sé, nel senso di propedeutica ad una cura di sé che possa aprire orizzonti inediti. A fronte di una feroce insistenza sul sentimento della paura, ci si può domandare: esiste un rapporto salubre con la paura come strategia d’uscita dal senso di paralisi? Al fondo di questa domanda pare stare la cifra della nostra cultura, la pretesa di certezza. L’impressione è che l’incertezza sia paralizzante e che non sia data possibilità di procedere se non sulla base della massima certezza e rassicurazione. Capovolgendo la prospettiva, in realtà la paura – se pure motivata per tutto ciò che attorno a noi e in noi è incerto – potrebbe non essere necessariamente paralizzante, ma rivelarsi straordinario dispositivo dell’attenzione, dunque di un modo sapiente ed efficace di stare al mondo e di attraversarlo. Il rammemorare chi siamo, la memoria pertinente all’essere colto nel dato di realtà dell’organico, da cui scaturisce la presa in carico della propria instabilità, si dà, allora, come strategia per cogliere degli alleati nell’incertezza e nel senso di paura che essa genera. Nell’incertezza si può vivere, si vive, non è inibizione alla vita. L’incertezza può diventare strumento per sentirci, per percepire come camminiamo nella vita, malgrado tutto ciò che ci sta intorno sia destabilizzante. Questo ci dice l’esistenza: che la vita si continua.
Bellissimo. Efficace.